lunedì 26 febbraio 2007

Il diavolo dellaTorre di Castionetto


Scendendo da Dalico, all’ultima curva prima di arrivare nell’abitato di Castionetto di Chiuro, m’appare sulla destra della strada la Torre di Castionetto, tutta illuminata con fari al sodio. Le luci arancioni le danno un tono spettrale e severo.
L’edificio fu eretto fra il XII ed il XIV secolo, apparteneva alla famiglia Quadrio. Ha dimensioni del tutto ragguardevoli, con oltre 11 metri di lato e mura spesse più di due metri. Prima che il restauro ne rinfrancasse l’aspetto, sul lato destro della facciata d’ingresso c’era un possente squarcio di cui non si conoscono le origini. Ma a questa carenza storica, come spesso accade, viene in soccorso la leggenda popolare.
Dovete sapere che, dopo che la torre fu abbandonata dagli uomini, un diavolo di ragguardevoli dimensioni ne fece la sua dimora. Di mole e bruttezza straordinarie incuteva timore nelle genti che se ne stavano ben lontane da quell’edificio. Se non che, un giorno, un gruppo di giovani spavaldi decise di entrare nella torre per vedere il demone e verificare di persona se fosse veramente così grosso e sgraziato. Arrivati sul posto non vi trovarono nessuno. D’un tratto un tetro rumore uscì dalle mura. Era il mostro.
Cosa incredibile: s’era nascosto perché aveva paura dei visitatori. Appena capì d’esser stato scoperto, uscì dalla torre e, preso dal panico, si mise a correre all’impazzata.
Nella foga, sbattè il suo grosso naso contro lo spigolo dell’edificio e lo squarciò. Vistane la paura, gli uomini divennero più intrepidi e si misero a inseguirlo. Il diavolo si vide costretto a rientrare nella torre per sottrarsi ai suoi cacciatori, ma fu così facile bersaglio dei giovani che cominciarono a scagliargli contro delle pietre. Tanti furono i massi lanciati che il piano terra dell’edificio ne fu sommerso. Allora il diavolo, per non essere sepolto vivo, scavò una galleria sotto la torre con cui si mise in salvo e scomparve per sempre.
Fa ridere in quale mala sorte cadano tutti i diavoli nostrani, sempre beffati dagli uomini. Sembra che solo in Val di Togno possano stare tranquilli a fare i sabba con le streghe e mangiare prelibati bambini!

tratto da "Le montagne divertenti, Viaggio fra le vette dimenticate".

venerdì 23 febbraio 2007

La leggenda della Val Zebrù: la tomba fra i ghiacci

Zebrusius e il suo eterno sepolcro nel ghiaccio

Una valle tanto importante ed abitata da tempo immemorabile come la Val Zebrù non poteva non avere una propria leggenda locale, che nel suo caso è legata al nome di Johannes Zebrusius, nobile feudatario di Gera Lario, il quale, per scordare un amore non corrisposto, partì per le crociate verso la Terra Santa, restando in medio oriente per quattro lunghi anni. Al suo ritorno fece l'amara scoperta di sapere che la bella Armelinda, di cui era tanto innamorato, era nel frattempo andata in sposa a un castellano di pianura. Così, il giovane Zebrusius pensò bene di fuggire nuovamente per dimenticare, lasciandosi alle spalle il ricordo dell'amata e i luoghi che avevano visto nascere i suoi sentimenti. Forse stanco delle calure medio orientali, si rifugiò fra gli imponenti monti dell'alta Valtellina, nella valle che poi ereditò il suo nome, vivendovi in eremitaggio per trent'anni e un giorno, fino alla morte. In quegli anni Zebrusius aveva avuto tutto il tempo per prepararsi un degno sepolcro, erigendolo ai piedi della vedretta della Miniera, protetto dai ghiacci eterni che per sempre lo avrebbero conservato. Sentendo che l'ora era dunque giunta, l'ormai anziano nobile si sdraiò nell'avello e, grazie ad un ingegnoso meccanismo di tronchi e contappesi, fece calare sopra di sé una gigantesca pietra tombale fatta di bianco calcare dolomitico su cui era inciso il suo nome, tuttora visibile al termine della lingua glaciale della vedretta.
(Foto: La vedretta della Miniera; al suo limite inferiore è ben visibile la pietra bianca che secondo la leggenda apparterrebbe alla tomba del nobile Zebrusius)

El Cràp del Diaul, il misterioso masso della valle del Davaglione.

Milleeseicento e...

Il diavolo, saputo che i Montagnoni stavano edificando una nuova chiesa a San Giovanni, chiese invidioso di partecipare alla costruzione: ottenne il permesso a patto di impegnarsi a portare in fretta il masso più grande che si potesse rintracciare.
Corse oltre gli alti pascoli, su fin nel gandùn de Mara e, trovato un grosso macigno, a fatica se lo caricò in spalla e scese fiero lungo il Davaglione per raggiungere al più presto il cantiere. Ma, giunto appena sopra i prati di Dauncian, udì il suono delle campane : la chiesa era stata ultimata e lui capì di essere stato ingannato. In preda all’ira, scagliò il masso – il Cràp del Diaul - sul ciglio del sentiero.
Disperato, cominciò a piangere a tal punto che nella valle del Davaglione scesero ruscelli gonfi delle sue lacrime che erosero il terreno e lasciarono aguzze guglie di argilla. In quella giornata sfortunata perse anche il suo cappello, che è tutt’ora appeso a una di queste guglie: il Capèl del Diaul.

giovedì 22 febbraio 2007

La leggenda dell'Isla Persa

e
Le origini dell'Isla Persa

Tra due grandi colate di ghiaccio, la Vadret da Morteratsch e la Vadret da Pers, sorge una gobba rocciosa, isolata come in mezzo ad un mare dimenticato e perduto: si chiama Isla Persa. Da qui ha preso il nome il Munt Pers. Un tempo vi era il pascolo e vi erano baite, pastori e bestiame. Vi si facevano pure gioconde feste, durante una delle quali sbocciò l'amore tra il giovane Eratsch e la bella Teresa, chiamata la "rosa della montagna". L'amore venne però contrastato dai parenti e così essi furono divisi: il giovane partì per la guerra e Teresa morì di dolore. Dopo qualche tempo Eratsch tornò e apprese la morte dell'amata: si recò allora verso l'alta montagna e si crede si sia gettato in un profondo crepaccio del Labirynth. Da allora il pascolo intristì, il ghiacciaio si fece avanti coprendo ogni cosa e sola rimase a ricordo la rupe arida e semi-sommersa dal ghiacciaio. Nelle notti di bufera vi si può vedere il tormentato spettro della "rosa della montagna."
(Foto: la Vadret da Morteratsch e la Vadret da Pers, tra loro l'Isla Persa)

mercoledì 21 febbraio 2007

Le leggende della bassa valle

Martin e gli altri immortali


Nonostante la scarsa antropizzazione, l'estinzione degli orsi, sebbene con qualche decennio di ritardo rispetto al versante retico, fu inevitabile anche nelle vallate orobiche.
L'ultimo esemplare fu ucciso a fine 800 in Val Venina, ma gran numero di leggende sul grosso predatore sopravvisse ai tempi e agli avvenimenti. Alcune delle più bizzarre erano ambientate in Val Lesina, alle pendici orientali del Legnone, e Bruno Galli-Valerio in Cols et
Sommets le racconta con grande passione:
“ Ma laggiù, sulla costa del Legnone, gli orsi erano feroci e burloni: tutti ne hanno sentito parlare.
Per molto tempo Legnone ed orsi sono stati una cosa sola.
Mi sembra ancora di vedere l'enorme bestia dalla pelliccia pressochè nera che s'era lanciata contro due cacciatori ferendone gravemente uno prima di capitolare sotto i colpi dell'altro.
Un altro orso se n'andava tranquillo un giorno su un sentiero della Val Lesina, quando incontrò
un toro.
Il sentiero era così stretto che i due animali si fermarono fissandosi negli occhi.
Poi l'orso si lecco le labbra: da molto tempo non gli era capitato sotto le unghie un simile boccone.
Si drizzò grugnendo sulle zampe posteriori e si gettò sul toro, ma quest'ultimo, più agile, abbassò
la testa e con un abile cornata inchiodò l'avversario contro le rocce aprendogli il ventre.
Il povero Martin [n.d.r. era il nome dell'orso, famoso e inconfondibile perchè ritenuto incatturabile] lasciò cadere sul petto la sua grossa testa dagli occhi spenti, ma rimase dritto perchè il toro, nel timore che fosse ancora vivo, lo teneva inchiodato alle sue corna.
Alcuni dicono che il toro è rimasto nella sua posizione fino a morire di fame ma altri assicurano che i pastori lo liberarono tre o quattro giorni dopo guadagnandosi la pelle dell'orso.
(illustrazioni: Carlo Pellicciari)