venerdì 19 ottobre 2007

LEGGENDA DEL PIZZO SCALINO


A Caspoggio lo sanno bene che il Pizzo Scalino non è una montagna, lo sanno da sempre e conoscono quale è il momento esatto in cui si manifesta nella sua vera essenza. Alla mezzanotte, quando il plenilunio imbianca lo spettrale ghiacciaio, una campana nascosta sulla vetta suona pesanti rintocchi. In quel momento la montagna diventa un grande castello che sulla cima del suo torrione inalbera una croce sfolgorante di luce nella notte.
Il maniero si illumina, si anima, mentre sul ghiacciaio corrono saettanti cavalli, montati da cavalieri, spettrali figure avvolti in neri mantelli svolazzanti.
Soltanto quando la luna arriva a toccare il profilo del cupo castello tutto ritorna lentamente nell’ombra e nel silenzio.
Ma gli abitanti di Caspoggio e i mandriani di Campascio, di Prabello, di Campagneda hanno visto ben di peggio. Nelle terribili notti in cui sulla montagna infuria la tempesta i cavalieri morti corrono sui loro scheletrici cavalli in corsa pazza sulle creste spazzate dal vento, urlando spaventosamente, scontrandosi tra loro in furibonde battaglie, illuminate dal bagliore dei fulmini. Meglio allora chiudere bene le porte della baita e ritirarsi nel letto pregando fervidamente Iddio.
A testimonianza, a valle del ghiacciaio dello Scalino, sotto il Piz Cancan, esiste ancor oggi il Plan Tempesta.

postato da Fabrizio Picceni

venerdì 4 maggio 2007

LEGGENDA DEL TURRIGLION

Tra le morene alla base della Vedretta di Cancian e del Pizzo Scalino, in versante svizzero, gli alpigiani grigioni dell’Alpe Cancian, di Quadrada, del Palù Grand sanno di non avvicinarsi soli nelle notti di maltempo al Turriglion, monolite roccioso di forme turrite.
Potrebbero staccarsi delle pietre e colpirli mortalmente.
All’epoca delle calate delle orde barbariche dei Lanzichenecchi un armigero disertore, fuggendo, risalì la valle di Cancian.
Giunto all’alpe rapì una giovane pastora intenta ad accudire le pecore e la trascinò sul Turriglion.
Sorpreso nel sonno il barbaro fu incatenato a lassù morì di stenti, mentre la pastora liberata tornò felice all’Alpe Cancian.
Nelle cupe notti di maltempo l’inquieto spirito del barbaro, imprigionato sul monolite roccioso, si vendica facendo rotolare pietre su chi si avventura verso quello che ancor oggi è chiamato il Turriglion, guglia rocciosa in luogo dominante.

Postato da Fabrizio Picceni

mercoledì 18 aprile 2007

LA MAGADA

I bambini stiano bene attenti a non camminare o giocare sul ciglio dell'impetuoso Lanterna, se non vogliono esser ghermiti dalla Magada che si nasconde tra le spume delle acque vorticose. La superstizione popolare ha personificato la "magada" in una sorta di strega dei fiumi, che ghermisce i bambini e li annega.
In realtà il pericolo della magada doveva servire, nel bene, a tenere lontani i "
redes" dai rischi del fiume Lanterna.

Da "Pizzo Scalino, un simbolo malenco" di Ermanno Sagliani.

postato da Fabrizio Picceni

venerdì 6 aprile 2007

GLI AMORI DI PIZZO SCALINO E VALMALENCO

Pizzo Scalino e Valmalenco erano prima due creature che si amavano e si sposarono e da loro nacque una bella fanciulla, Chiesa. Poi nacque un figlio, Caspoggio. Poi nacque un fanciullo, Lanzada. Chiesa sposò il Mallero e nacque Primolo, un bel ragazzo. Primolo volle metter su casa per conto suo. Fratello di Primolo fu Chiareggio che volle andare a vivere all’ombra dei nonni soprannominati Disgrazia e Ventina. Da questo ceppo nacquero altre creature, i cui nomi recano i paesi della Valmalenco. Quando Dio vide tanta perfezione di sentimenti e tanti affetti, pensò di rendere eterne le creature privilegiate e le trasformò in luoghi, paesi, monti, valli e poggi come a suggellare una fraternità, che il tempo non doveva distruggere. Questa leggenda di Valmalenco, dice come l’altezza e la poesia di amorosi vincoli umani possono restare intatti anche attraverso trasformazioni e trascendenze.


postato da Fabrizio Picceni

mercoledì 4 aprile 2007

LEGGENDA DI PRIMOLO

Il nome del luogo, se non lo sapete, deriva dalle primule che fiorirono attorno al capo della bella Mina, quando morì d'amore. Essa era promessa a Guglielmo Sheffer, figlio d'un nobile di Engadina; ma quando il suo amato valicò il Muretto per tornare dal padre, Mina, ch'era figlia di un modesto contadino, lo attese a lungo invano seduta all'ombra del grande pino che cresceva dove oggi è il santuario. La morte la colse così e così la trovarono i contadini che la chiamarono Primula a causa dei fiori. Quindi eressero la prima chiesa attorno alla quale sorse in seguito il paese delle primule.
postato da Fabrizio Picceni

venerdì 23 marzo 2007

La leggenda del Monte Disgrazia



Lo chiamavano Pizzo Bello perché pascoli lussureggianti lo coprivano in perpetuo. I pastori non si stancavano mai di guardare la bella montagna e di ammirarla.
Un giorno un mendicante stanco ed affamato chiese loro un po’ d’ospitalità ma essi lo cacciarono: intenti a rimirare lo splendore del monte non avevano altri occhi che per lui. Quel mendicante alzò allora una mano, una mano terribile, e maledisse la montagna tanto più cara al loro cuore che l’amore di Dio: le fiamme l’avvolsero bruciandola fino alla vetta e il grande bagliore accecò i pastori.
Da allora è chiamato Disgrazia e le sue rocce sono rosse e l’erba più non vi cresce; i pastori però hanno dato l’antico nome ad una cima più modesta per consolarsene e per potere venerare di più la gloria del Signore.

Da: Val Malenco, Ezio Pavesi (1969). Postato da Fabrizio Picceni.

lunedì 19 marzo 2007

LEGGENDA DI VAL DI TOGNO (O LEGGENDA DEI GOLOSI)

Qualora un viandante si trovasse a percorrere di notte il sentiero che dal lago Painale conduce a Ca’ Brunàl, nel momento in cui la campana della distrutta chiesa di S. Eusebio in Sondrio suona i rintocchi della mezzanotte, potrebbe sentire uno strano rumore come di capre intente a brucare. Le ombre che lo attorniano sono in movimento e se egli tenderà l’orecchio e aguzzerà la vista vedrà pallidi fantasmi strappare l’erba rada di quei pascoli aridi e cibarsene. La Val di Togno è infatti uno di quei luoghi infernali dove coloro che da vivi furnono golosi vengono mandati in morte a scontare il loro peccato nutrendosi di quel cibo miserabile: l’erba della Val di Togno non cresce mai abbondante.

Da: “Leggende e tradizioni valtellinesi” (W. Mevio), postato da Fabrizio Picceni

mercoledì 14 marzo 2007

Una nota di nostalgia

28 ottobre 2006, i laghi della Val di Lei da un crepaccio del ghiacciaio della Ponciagna.
Sassi, ghiaccio, frane e polvere, poi, finalmente, siamo ai due torbidi laghetti di disgelo che giacciono ai piedi della Ponciagna (m 2470). Colori buffi, così vicini e con due tonalità di verde così diverse. Chissà che succede all'acqua? Il lago di Lei, in cui si travasano i laghetti, è di un blu talmente puro e intenso che non sembra essere nemmeno loro lontano parente.
Saliamo una ripidissima scarpata, altre rocce e siamo in vetta al Pizzo Peloso, sullo spartiacque fra l'Angeloga e il Vallone dello Stella. Laghetti ovunque. La neve caduta sulle quote maggiori accentua i colori dell'autunno, oggi ancor confinato entro la linea delle latifoglie.
Accucciati sotto la striminzita croce di vetta (due assi di legno incrociate), rubiamo il calore degli ultimi raggi di sole. Attorno a noi regna la serenità alpina che annuncia il tramonto. Angeloga si corica sotto un velo d'ombra mentre una cupa nebbiolina abbraccia tutto. Il vento sembra emulare le grida dei pastori che richiamano le bestie al crepuscolo. Forse se facciamo di corsa li troveremo ancora svegli, magari davanti ad un fuoco a raccontarsi le loro storie, le antiche leggende...
Ma anche quassù queste cose non accadono più.

lunedì 26 febbraio 2007

Il diavolo dellaTorre di Castionetto


Scendendo da Dalico, all’ultima curva prima di arrivare nell’abitato di Castionetto di Chiuro, m’appare sulla destra della strada la Torre di Castionetto, tutta illuminata con fari al sodio. Le luci arancioni le danno un tono spettrale e severo.
L’edificio fu eretto fra il XII ed il XIV secolo, apparteneva alla famiglia Quadrio. Ha dimensioni del tutto ragguardevoli, con oltre 11 metri di lato e mura spesse più di due metri. Prima che il restauro ne rinfrancasse l’aspetto, sul lato destro della facciata d’ingresso c’era un possente squarcio di cui non si conoscono le origini. Ma a questa carenza storica, come spesso accade, viene in soccorso la leggenda popolare.
Dovete sapere che, dopo che la torre fu abbandonata dagli uomini, un diavolo di ragguardevoli dimensioni ne fece la sua dimora. Di mole e bruttezza straordinarie incuteva timore nelle genti che se ne stavano ben lontane da quell’edificio. Se non che, un giorno, un gruppo di giovani spavaldi decise di entrare nella torre per vedere il demone e verificare di persona se fosse veramente così grosso e sgraziato. Arrivati sul posto non vi trovarono nessuno. D’un tratto un tetro rumore uscì dalle mura. Era il mostro.
Cosa incredibile: s’era nascosto perché aveva paura dei visitatori. Appena capì d’esser stato scoperto, uscì dalla torre e, preso dal panico, si mise a correre all’impazzata.
Nella foga, sbattè il suo grosso naso contro lo spigolo dell’edificio e lo squarciò. Vistane la paura, gli uomini divennero più intrepidi e si misero a inseguirlo. Il diavolo si vide costretto a rientrare nella torre per sottrarsi ai suoi cacciatori, ma fu così facile bersaglio dei giovani che cominciarono a scagliargli contro delle pietre. Tanti furono i massi lanciati che il piano terra dell’edificio ne fu sommerso. Allora il diavolo, per non essere sepolto vivo, scavò una galleria sotto la torre con cui si mise in salvo e scomparve per sempre.
Fa ridere in quale mala sorte cadano tutti i diavoli nostrani, sempre beffati dagli uomini. Sembra che solo in Val di Togno possano stare tranquilli a fare i sabba con le streghe e mangiare prelibati bambini!

tratto da "Le montagne divertenti, Viaggio fra le vette dimenticate".

venerdì 23 febbraio 2007

La leggenda della Val Zebrù: la tomba fra i ghiacci

Zebrusius e il suo eterno sepolcro nel ghiaccio

Una valle tanto importante ed abitata da tempo immemorabile come la Val Zebrù non poteva non avere una propria leggenda locale, che nel suo caso è legata al nome di Johannes Zebrusius, nobile feudatario di Gera Lario, il quale, per scordare un amore non corrisposto, partì per le crociate verso la Terra Santa, restando in medio oriente per quattro lunghi anni. Al suo ritorno fece l'amara scoperta di sapere che la bella Armelinda, di cui era tanto innamorato, era nel frattempo andata in sposa a un castellano di pianura. Così, il giovane Zebrusius pensò bene di fuggire nuovamente per dimenticare, lasciandosi alle spalle il ricordo dell'amata e i luoghi che avevano visto nascere i suoi sentimenti. Forse stanco delle calure medio orientali, si rifugiò fra gli imponenti monti dell'alta Valtellina, nella valle che poi ereditò il suo nome, vivendovi in eremitaggio per trent'anni e un giorno, fino alla morte. In quegli anni Zebrusius aveva avuto tutto il tempo per prepararsi un degno sepolcro, erigendolo ai piedi della vedretta della Miniera, protetto dai ghiacci eterni che per sempre lo avrebbero conservato. Sentendo che l'ora era dunque giunta, l'ormai anziano nobile si sdraiò nell'avello e, grazie ad un ingegnoso meccanismo di tronchi e contappesi, fece calare sopra di sé una gigantesca pietra tombale fatta di bianco calcare dolomitico su cui era inciso il suo nome, tuttora visibile al termine della lingua glaciale della vedretta.
(Foto: La vedretta della Miniera; al suo limite inferiore è ben visibile la pietra bianca che secondo la leggenda apparterrebbe alla tomba del nobile Zebrusius)

El Cràp del Diaul, il misterioso masso della valle del Davaglione.

Milleeseicento e...

Il diavolo, saputo che i Montagnoni stavano edificando una nuova chiesa a San Giovanni, chiese invidioso di partecipare alla costruzione: ottenne il permesso a patto di impegnarsi a portare in fretta il masso più grande che si potesse rintracciare.
Corse oltre gli alti pascoli, su fin nel gandùn de Mara e, trovato un grosso macigno, a fatica se lo caricò in spalla e scese fiero lungo il Davaglione per raggiungere al più presto il cantiere. Ma, giunto appena sopra i prati di Dauncian, udì il suono delle campane : la chiesa era stata ultimata e lui capì di essere stato ingannato. In preda all’ira, scagliò il masso – il Cràp del Diaul - sul ciglio del sentiero.
Disperato, cominciò a piangere a tal punto che nella valle del Davaglione scesero ruscelli gonfi delle sue lacrime che erosero il terreno e lasciarono aguzze guglie di argilla. In quella giornata sfortunata perse anche il suo cappello, che è tutt’ora appeso a una di queste guglie: il Capèl del Diaul.

giovedì 22 febbraio 2007

La leggenda dell'Isla Persa

e
Le origini dell'Isla Persa

Tra due grandi colate di ghiaccio, la Vadret da Morteratsch e la Vadret da Pers, sorge una gobba rocciosa, isolata come in mezzo ad un mare dimenticato e perduto: si chiama Isla Persa. Da qui ha preso il nome il Munt Pers. Un tempo vi era il pascolo e vi erano baite, pastori e bestiame. Vi si facevano pure gioconde feste, durante una delle quali sbocciò l'amore tra il giovane Eratsch e la bella Teresa, chiamata la "rosa della montagna". L'amore venne però contrastato dai parenti e così essi furono divisi: il giovane partì per la guerra e Teresa morì di dolore. Dopo qualche tempo Eratsch tornò e apprese la morte dell'amata: si recò allora verso l'alta montagna e si crede si sia gettato in un profondo crepaccio del Labirynth. Da allora il pascolo intristì, il ghiacciaio si fece avanti coprendo ogni cosa e sola rimase a ricordo la rupe arida e semi-sommersa dal ghiacciaio. Nelle notti di bufera vi si può vedere il tormentato spettro della "rosa della montagna."
(Foto: la Vadret da Morteratsch e la Vadret da Pers, tra loro l'Isla Persa)

mercoledì 21 febbraio 2007

Le leggende della bassa valle

Martin e gli altri immortali


Nonostante la scarsa antropizzazione, l'estinzione degli orsi, sebbene con qualche decennio di ritardo rispetto al versante retico, fu inevitabile anche nelle vallate orobiche.
L'ultimo esemplare fu ucciso a fine 800 in Val Venina, ma gran numero di leggende sul grosso predatore sopravvisse ai tempi e agli avvenimenti. Alcune delle più bizzarre erano ambientate in Val Lesina, alle pendici orientali del Legnone, e Bruno Galli-Valerio in Cols et
Sommets le racconta con grande passione:
“ Ma laggiù, sulla costa del Legnone, gli orsi erano feroci e burloni: tutti ne hanno sentito parlare.
Per molto tempo Legnone ed orsi sono stati una cosa sola.
Mi sembra ancora di vedere l'enorme bestia dalla pelliccia pressochè nera che s'era lanciata contro due cacciatori ferendone gravemente uno prima di capitolare sotto i colpi dell'altro.
Un altro orso se n'andava tranquillo un giorno su un sentiero della Val Lesina, quando incontrò
un toro.
Il sentiero era così stretto che i due animali si fermarono fissandosi negli occhi.
Poi l'orso si lecco le labbra: da molto tempo non gli era capitato sotto le unghie un simile boccone.
Si drizzò grugnendo sulle zampe posteriori e si gettò sul toro, ma quest'ultimo, più agile, abbassò
la testa e con un abile cornata inchiodò l'avversario contro le rocce aprendogli il ventre.
Il povero Martin [n.d.r. era il nome dell'orso, famoso e inconfondibile perchè ritenuto incatturabile] lasciò cadere sul petto la sua grossa testa dagli occhi spenti, ma rimase dritto perchè il toro, nel timore che fosse ancora vivo, lo teneva inchiodato alle sue corna.
Alcuni dicono che il toro è rimasto nella sua posizione fino a morire di fame ma altri assicurano che i pastori lo liberarono tre o quattro giorni dopo guadagnandosi la pelle dell'orso.
(illustrazioni: Carlo Pellicciari)